domenica 13 marzo 2011

Quali non morti?

L'ultima volta ci siamo lasciati con la promessa di avviare un confronto tra i differenti tipi di "non morti", cercando di interpretare le motivazioni profonde che li hanno strappati da un "aldilà" per condurli fino alle nostre porte.
Intraprendiamo quindi il nostro percorso sulla morte che cammina osservando alcune peculiarità della grande famiglia degli Zombie, apparsi ultimamente anche nei sogni del Dott. House.
Perché gli Zombie catturano il nostro interesse cosi da renderli i primi attori in questo viaggio?
Cosa rappresenta uno Zombie, o meglio l'orda di Zombie, per la nostra cultura?

I nostri Zombie sono stati utilizzati, come già indicato in "chi stiamo osservando", sia nel primissimo lungometraggio del 1932 che poi nei film di G. Romero come mezzo per criticare la società, da schiavi nelle fabbriche a massa priva di volontà e spinta soltanto da istinti, capaci inoltre di tirar fuori il peggio da chi morto non lo è ancora. Un esempio chiarificatore lo troviamo nelle ultime scene de La notte dei morti viventi, primo film della saga romeriana, dove gli Zombie diventano il bersaglio di una caccia a sfumature addirittura raziali, un K.K.K. del "non morto", attività della quale anche la sopravvissuta alla "notte" rimane disgustata.
A mio avviso il significato degli "Zombie" in quanto tali è molto più complesso di una semplice allegoria di protesta, per prima cosa rappresentano la figura più simile ad un essere umano che troviamo nella costellazione non morta, essi sono l'Altro differente, sul quale si riflette la potenza simbolica dell'immagine che per definizione vede nell'alterità "aliena" ciò che minaccia e mette in dubbio le certezze su noi stessi (Fabio D'Andrea, L'Io ulteriore, Morlacchi Perugia 2004, p. 85).
Questa alterità conflittuale, presentata in modo chiarissimo da F. D'Andrea, nello Zombie viene ad essere ulteriormente potenziata. L'immagine del "non morto", nostro alter-ego, si trascina dietro una pletora di significati, l'Altro Z. è "morto" non soltanto per l'assenza dei parametri vitali, egli è morto in quanto negazione della razionalità umana. Rappresenta tutto ciò da cui fuggiamo e tutto ciò che vogliamo esiliare oltre i luminosi confini del nostro mondo che vorremmo incontaminato e immortale.

Lo Zombie non ragiona, non ha più il dono dell'intelletto, è inutile quindi porsi il problema della presenza o meno di un anima nella creatura, non è forse vero che senza razionalità l'animo o semplicemente non è presente o comunque si riduce ad una inutile appendice residuale?
I "figli" cinematografici di Romero osano, nella loro irrazionale stupidità, oltrepassare i muri che abbiamo eretto tra noi e il mondo dei morti. Abbattono virtualmente, e nella filmografia anche fisicamente, le barriere che dovrebbero separarci dall'accettazione della nostra finitezza, dall'imperfezione della creazione ovvero dalla nostra caducità e più cerchiamo di barricarci nelle nostre case più l'orda aumenta e si fa minacciosa.
La minaccia non deriva in linea esclusiva dal ricordarci che un giorno dovremo essere anche noi dei morti, la minaccia Zombie si appropria del potere fondante dell'immagine e si trasforma in fauci armate di denti aguzzi, pronte a stritolare ed a mordere e non nella semplice bocca che inghiotte e succhia (Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario, Dedalo, Bari 1972, p. 76).
L'orda divora la vita, non la offende solo con la vista di ciò che dovrebbe essere un tabù chiuso dietro alle possenti mura dei cimiteri, la violenta nella carne con i denti e attraverso questo macabro rituale la trasforma a sua volta in carne "non morta", condannandola ad un eterno vagare antropofagico.
Questa orda che non uccide ma trasforma l'uomo in creature immonde, antropofaghe e prive di intelletto, compare all'improvviso come provenisse dal niente, dall'abisso biblico dal quale, nell'apocalisse di Giovanni, si liberano cavallette simili ad uomini ma con denti di leone.

Lo Zombie incarna quindi tutto ciò che tentiamo di nascondere a noi stessi, egli esce dalla nuda terra ricordandoci che la morte fa parte della vita, ci mostra il nostro "io ulteriore" irrazionale, profana i luoghi sacri (case, centri commerciali, intere città...) e quel che più ci ripugna viola la sacralità del corpo con i sui denti, divorando la carne e infettandola con il morbo che trasforma l'uomo in tutto ciò da cui da sempre vorrebbe fuggire.

Se fino ad ora abbiamo dipinto gli Zombie come alieni, come il lato oscuro da estirpare, dobbiamo adesso tentare una ricucitura dello strappo tra uomo e Zombie, tra vita e morte, avvicinandoci alla visione maffesoliana del rapporto tra "bene e male", pienamente espressa ne La parte del Diavolo.
In questo compito ci viene in aiuto, ancora una volta, il padre degli Zombie moderni G. A. Romero. Nel suo "L'isola dei sopravvissuti" cerca a suo modo di trovare un punto di contatto, una possibile convivenza tra uomini e Zombie, un patto di non aggressione nel quale lo Zombie riesce a cibarsi di animali e non più di carne umana.
Durante tutto il film si assiste ad una netta diairesi tra i fautori dello sterminio degli Zombie e i sostenitori della possibile convivenza, una sorta di riabilitazione del male ovvero di sua integrazione nel ciclo stesso dell'esistenza, una necessaria (e non soltanto possibile) convivenza tra le due facce della stessa essenza. Lo Zombie alla fine rimane sì crudele, morde addirittura la carne della sorella, ma allo stesso tempo è innocente e non si macchia della morte, cosa che invece fa il padre nei confronti della figlia per la quale non accetta la trasformazione a seguito del morso.
Lo Zombie accetta di cibarsi della carne degli animali e lascia l'uomo in una situazione di dubbio e paura, in bilico tra l'accettare l'esistenza contemporanea di bene e male o negare invano quest'ultimo subendone necessariamente il violento risveglio.

Nessun commento:

Posta un commento